lunedì 23 febbraio 2009

FLESHTONES - Roman Gods [IRS]

Gli eroi “buoni” esistono e le favole pure. Quindi anche se siete di New York e come tutti i Newyorkesi possedete un tatuaggio con su scritto “Arty” posizionato sulla parte inferiore del cervelletto, sappiate che è arrivato un tizio di nome Peter Zaremba che ve lo eliminerà a suon di organetto. Le favole esistono, anche perchè svegliarsi una mattina di ferie per mettersi a trafficare in soffitta tra polvere e strumenti dismessi, salvo poi decidere ( dopo aver pulito tutto ) di formare una band, rimane un atto magico, tenero e adolescenziale. Esattamente quello che fece Keith Strong. Futuro chitarrista della band, Keith forse sapeva suonare “Oh when the saints go marching in “ con un cucchiaio e due bicchieri, anche se non ne sono del tutto sicuro, e comunque la sua esperienza di musicista si esauriva a quello. Amico di Peter Zaremba da diversi anni, Keith chiese al cantante organista di far parte della band, o forse fu il contrario, in qualsisi dei due casi, la nuova recluta accettò eseguendo un saltello su se stesso in segno di approvazione. I due rappresenteranno l'anima di una band che insieme a Bill (Batteria ) e Ken (Basso), si prodigò nel difficile compito di portare in ogni angolo della terra quella sensazione di spensieratezza da party della confraternita a cui il mondo aspirava (Secondo loro). La frase “Una manica di simpatici festaioli bontemponi” può descrivere bene il fenomeno, anche se trovare la ricetta giusta per esprimere tutto questo sfarzo goliardico in pieno periodo revival-psichedelico, non fu certo cosa immediata. American Beat (Il primo vero singolo della band) invece folgorò tutti gli amanti del toga party oltre coloro che amano correre nudi per le strade dopo la terza pinta di birra. Il suo incedere è straripante. Un gavettone di felicità si infrange mentre il sax più ebbro della storia prepara il tappeto rosso all' anthem che da solo descriverà il revival sixties e si ereggerà a sua forma massima. Il passo verso la commistione perfetta di Roman gods è breve, e mentre le prime note di “The dreg” inumidiscono l'aria, si comprende quanto la speziatura della proposta sarà ben più massiccia di un semplice tuffo nelle dance-hall universitarie dei sixties. All' interno, la tradizione garage viene arricchita dal Rhythm and blues (Hope come back)e soleggiata dal surf più limpido e armonico di sempre(Let's see the sun), inacidita da punte piccanti e richiami rockabilly (R-i-g-h-t-s) senza dimenticare mai l' argilla da cui provengono, il garage-sixties di “Stop fooling around”. Roman gods si presenta come il miglior prodotto revivalistico di tutti gli eighties, qualcosa nato per un' esigenza ben precisa e non dalla mera ricerca di un' esperienza “Diversa” nella New York degli artisti. Se siete in cerca di Eroi veri, di passionali e appassionati alfieri che degnamente rappresentarono gli anni del revival, bhe gli avete trovati,e questa è la loro manifestazione migliore.
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